Borgo Bainsizza 1
Libano 2023
“Andiamo in Libano?”
È iniziata così, con una proposta un po’ avventata, una delle esperienze più intense e significative che abbiamo mai affrontato. Lì per lì sembrava una cosa grande, grandissima – come cavolo ci arriviamo in Libano? Ma poi ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo convinto i nostri genitori superando mille dubbi e scetticismi, e infine abbiamo potuto dirlo.
“Andiamo in Libanooooo”
Fin da subito sapevamo che sarebbe stato un campo fuori dall’ordinario – e ancora adesso, a distanza di giorni dal nostro ritorno in Italia, facciamo fatica a raccogliere le emozioni e a trovare le parole giuste per raccontare quel che è stato. Il nostro invito più grande e sincero è di vivere quest’esperienza, perché non esiste frase che le possa rendere giustizia.
Partiamo dall’inizio: abbiamo costruito questo campo all’estero con l’aiuto di Don Antonio, una persona speciale che si è guadagnata un posticino altrettanto speciale nei nostri cuori. È stato Don Antonio a rendere possibile tutto: dolce, gentile e disponibile, ci ha offerto tutto quel che poteva offrire, se non di più. Dalle camere dove dormire ai pasti nel corso delle giornate, dai mezzi di trasporto ai contatti necessari per le nostre attività. Quando, dopo mesi di autofinanziamenti e preparativi, siamo finalmente atterrati a Beirut, è stato proprio lui ad attenderci alle porte dell’aeroporto. Le braccia spalancate, ci ha stretti in mille abbracci pieni di affetto ed entusiasmo. Don Antonio ci ha generosamente accolti all’interno del monastero in cui presta servizio, ospitandoci all’interno delle mura alte e spesse del complesso. Così ci siamo sistemati nelle nostre camere e presto ci siamo addormentati, avvolti da una sensazione strana tra la curiosità, il timore e l’inevitabile stanchezza.
L’indomani ci siamo diretti verso l’orfanotrofio presso cui avremmo prestato servizio: i bambini e le bambine erano lì ad aspettarci, emozionati quanto noi e carichi come molle. Erano tantissimi, alcuni piccoli e scattanti, altri più grandicelli, altri ancora poco più piccoli di noi. Ma presto ci siamo resi conto di un problema: quasi nessuno conosceva l’inglese! La maggior parte dei bambini parlava unicamente l’arabo, alcuni anche il francese, mentre a conoscere l’inglese erano pochissimi … forse si contavano sulle dita di una mano. Lì per lì ci siamo trovati in grande difficoltà: come potevamo spiegare i nostri giochi, le attività o persino i più semplici dei bans? Ci siamo ritrovati a gesticolare, a mimare le attività e rappresentare i diversi giochi, oppure a chiedere aiuto ai pochi che conoscevano l’inglese. Per fortuna, dopo qualche sforzo, abbiamo trovato il nostro modo di comprenderci e di comunicare in un linguaggio tutto nostro. E così abbiamo corso, ballato, cantato e giocato insieme fino alle ultime luci del tramonto. Tuttavia, nel corso di quel pomeriggio, un secondo fattore ci ha colti di sorpresa: i bambini e le bambine evitavano ogni forma di contatto reciproco. Se da una parte giocavano i bambini, dall’altra stavano le bambine, e guai che si abbracciassero o si prendessero semplicemente per mano. Ogni volta che tentavamo di farli giocare insieme, i bambini scansavano le coetanee tra la vergogna e il timore. Col passare dei giorni abbiamo capito che quel distacco non era stato imposto loro da nessuno, eppure la repulsione era come inconscia, insita nelle loro menti: quasi si trattasse di due cariche elettriche dello stesso segno che si respingono tra loro, bambini e bambine non potevano toccarsi l’un l’altro. Perciò noi abbiamo rappresentato un esempio completamente nuovo: sempre pronti a scherzare l’uno con l’altra, ad abbracciarci e giocare insieme al di là di ogni differenza di sesso, noi siamo stati una sorta di “spartiacque”. Senza nemmeno rendercene conto, abbiamo tratteggiato una nuova strada davanti a questi bambini e delineato un nuovo modo di vedere le cose, un nuovo modo di guardare all’altro. È stato incredibile, alla fine dei nostri giorni di servizio, guardarli prendersi per mano liberamente: un piccolo grande traguardo, dopo un arco di tempo così breve, che ci ha colmati di gioia e tanta speranza.
Oltre ad animare le giornate con i bambini e a giocare insieme a loro, abbiamo offerto il nostro aiuto per alcuni lavori pratici all’interno dell’orfanotrofio e nella vicina scuola elementare. La prima sera abbiamo dato vita al “Giardino Dell’Amicizia”, un progetto a cui Don Antonio teneva immensamente: con l’aiuto dei bambini abbiamo recuperato una grande area verde subito dietro l’orfanotrofio, ripulendola dai rifiuti e piantando nuovi alberi, nella speranza che un giorno non troppo lontano i bambini possano giocare alla loro ombra. Inoltre abbiamo ripulito gli spazi comuni e verniciato il campo della scuola elementare, colorando le scale e i gradoni degli spalti. Per farlo ci siamo riempiti di pittura e mille disegni delle bambine che, entusiaste di darci una mano, si sono ritrovate sporche di vernice quanto noi e colorate dalla testa ai piedi.
Senza dubbio sono stati giorni pieni, in ogni senso: pieni di attività e impegni, pieni di emozioni, entusiasmo e gratitudine, pieni di sorrisi enormi e teneri abbracci. I bambini e le bambine ci hanno donato un amore immenso e disinteressato, così come Don Antonio e tutte le donne che lavorano con i ragazzi. Noi non abbiamo fatto altro che brillare della loro luce: e come splendeva ciascuno di loro! Come rifulgevano i loro occhi! Baden-Powell aveva proprio ragione quando affermava: “Il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri”.
Per ricambiare la loro accoglienza, una sera abbiamo deciso di portare un pezzo della nostra Italia in Libano, e abbiamo preparato per tutti una buonissima cena italiana: bruschette con i pomodorini, polenta fritta, pasta all’amatriciana, pane e Nutella. Fortunatamente la nostra cucina ha riscosso un grande successo (nonostante la polenta fosse un pelino salata), ma quel che ci ha sorpreso è stato l’amore spassionato e unanime per le bruschette! Una cena, insomma, all’insegna della bandiera tricolore, ma soprattutto dello scambio culturale. E i giorni successivi hanno dato il via ad uno scambio culturale, sociale e politico ancora più vivo e intenso.
Trascorsi i primi giorni del campo nella compagnia gioiosa dei bambini, infatti, abbiamo condiviso i nostri ultimi giorni con un Clan di ragazzi e ragazze libanesi. Ancora una volta è incredibilmente difficile spiegare quanto sia stato straordinario. In primo luogo abbiamo scoperto quanto lo scautismo sia universale: a nulla valgono le differenze nell’uniforme, nella lingua o persino nella religione quando i valori in cui crediamo sono gli stessi. La sera stessa in cui ci siamo conosciuti abbiamo intonato insieme il Canto della Promessa, noi in italiano e loro in francese. È stato un momento magico, in cui ci siamo legati indissolubilmente: lì, seduti per terra e stretti l’uno all’altra, ci siamo riconosciuti come fratelli e sorelle sotto il chiarore della luna. Se solo potessimo ricordarci più spesso che le nostre dita indicano tutte la stessa luna, e i nostri nasini all’insù sono diretti tutti verso lo stesso cielo…
Il mattino successivo ci hanno portati a visitare Tripoli, la seconda città del Libano per popolazione e importanza. Fin da subito siamo stati colpiti dalle sue strade caotiche, in cui si riversavano mille odori e rumori diversi. Fiumi di gente e veicoli attraversavano la città in una confusione immensa a cui i cittadini sembravano abituati. Nessun segnale per regolare il traffico, nessun attraversamento pedonale, nessuna regola. I ragazzi libanesi ci hanno spiegato che loro stessi guidavano senza alcuna patente di guida, poiché le scuole di guida erano state chiuse e mai più riaperte. È stato così, un pezzo di informazione per volta, che abbiamo ricostruito la loro quotidianità. Mentre facevamo capolino tra i quartieri caratteristici di Tripoli – i cosiddetti souk – abbiamo visto la drammatica situazione dei bambini, costretti a percorrere scalzi le strade sporche e polverose, costretti a chiedere soldi ai passanti, o a vendere cianfrusaglie di ogni sorta. Eppure, se da una parte vedevamo la povertà più assoluta, dall’altra assistevamo alla ricchezza più sfacciata: poco prima di arrivare a Tripoli avevamo scorto decine di complessi residenziali e superbe ville. “Ricchissimi” e “poverissimi”, insomma, senza possibili vie di mezzo. E questo costituisce un problema enorme con profonde ripercussioni politiche: se al governo stanno i “ricchissimi”, che così continuano ad arricchirsi, chi potrebbe mai pensare alle condizioni dei “poverissimi”? E se l’elettorato è tanto povero da soffrire la fame, quanto può valere la sua integrità morale rispetto ad un pezzo di terra o più semplicemente ad un sacco di grano? L’aspetto più critico del sistema politico sta proprio nella difficoltà di cambiare le cose. I ragazzi ci hanno parlato accoratamente dell’ultimo tentativo rivoluzionario, avvenuto tra il 2019 e il 2020 in gran parte del Libano. Migliaia di persone si erano riversate tra le strade delle città per combattere il malgoverno e la corruzione: loro stessi – giovanissimi – avevano protestato al fianco dei propri amici e familiari, protratto i propri sforzi per mesi, nel tentativo di ribaltare un governo tanto inetto quanto corrotto. Decine di banche erano state incendiate e vandalizzate, in centinaia erano morti tra soldati e civili. Eppure quegli interminabili mesi di proteste non hanno sortito alcun effetto. Oggigiorno le cose permangono terribilmente uguali, e i cittadini libanesi sono completamente soli, lasciati a loro stessi. È drammatico, ma lo Stato non esiste. A raccontarlo sono stati proprio i ragazzi, ed è grazie alla loro testimonianza che abbiamo visto e vissuto il Libano attraverso i loro stessi occhi.
Quel giorno abbiamo percorso insieme le vie di Tripoli e visitato i suoi edifici più importanti; abbiamo camminato timidamente sui tappeti di una moschea, ed esplorato le antiche mura di un castello. Ma la strada vera e propria l’abbiamo percorsa il giorno successivo, tra il verde degli alberi e il rossastro delle pareti rocciose. Abbiamo camminato per diverse ore, percorrendo un sentiero che toccava alcuni piccoli paesi sul fianco della montagna. E quante cose ci siamo detti lungo il cammino! Dai nostri interessi ai talenti nascosti, dai nostri progetti alle nostre paure: ci siamo confidati liberamente l’uno con l’altro, creando un’amicizia che supera ogni confine geografico. È stato proprio bello condividere le difficoltà della strada insieme a loro, così come la gioia di aver trovato una fontana o il sollievo di essere arrivati a destinazione. Del resto, “un sorriso fa fare il doppio di strada di un brontolio”.
E così, un pezzo di strada alla volta, un passo dopo l’altro, il nostro campo in Libano è giunto al termine.
Abbiamo cercato e ricercato tra le migliaia di parole del nostro vocabolario quelle che potessero descrivere al meglio ciò che è stato. E abbiamo trascritto su grandi foglie verdi le parole che, a nostro avviso, potrebbero essere le più giuste. Universale. Connessione. Pienezza. Amore, realizzazione, nuovo capitolo. Provvidenza. Ho deciso di servire per cambiare quel che c’è. Forza. Consapevolezza. Infine figura una parola inglese, che non ha un corrispettivo italiano capace di renderle giustizia: Overwhelming. Si tratta di un aggettivo che vuole descrivere qualcosa di enorme, travolgente, addirittura soverchiante; qualcosa che potrebbe schiacciare e sopraffare. E il Libano è stato tutto questo.
Adesso che siamo tornati, carichi di esperienze e sopraffatti dalle emozioni, vogliamo fermarci a guardare il solco che abbiamo tracciato: non parliamo solo delle attività e del nostro servizio, ma soprattutto delle relazioni che abbiamo costruito e delle strade che abbiamo aperto. Se abbiamo deciso di scrivere queste righe non è solo per ricordare il nostro campo, che del resto è una memoria indelebile custodita gelosamente nei nostri cuori, ma anche per invitarvi a percorrere il sentiero che abbiamo tracciato con tanto impegno e dedizione. Se abbiamo scritto queste righe, insomma, è perché crediamo nella possibilità di camminare insieme.